Da Machiavelli a Sciascia: l'impossibile moralizzazione della politica

Todo modo è un romanzo dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia, pubblicato per la prima volta nel 1974.

Un pittore famoso, ateo e anticlericale ma anche disincantato e sfiduciato, segue un cartello stradale che lo ha incuriosito e raggiunge l’albergo-eremo di Zafer. Avendo saputo che stanno per sopraggiungere personaggi molto in vista per dedicare una settimana agli esercizi spirituali, decide di trattenersi a sua volta.

Ammesso alla tavola del direttore don Gaetano, in compagnia di uomini eminenti, il pittore ha modo di verificare l’intreccio perverso tra politica, alte gerarchie ecclesiastiche, potentati economici. Intanto avvengono tre omicidi e i rappresentanti della legge brancolano nel buio.

Il romanzo non è molto esteso, ma, come Il giorno della civetta, è un piccolo gioiello nella sua essenzialità: la storia avvince fino alla conclusione e i personaggi sono delineati in maniera molto efficace. Tra tutti spicca quello di don Gaetano, col suo fascino oscuro: uomo coltissimo e pragmatico, gesuita fondamentalista, egli persegue i propri obiettivi dimostrando determinazione, sangue freddo e una sottile ironia che solo le persone più intelligenti possono cogliere. Anche il pittore, che più degli altri riesce a tenere testa all’eloquenza stringente del gesuita, resta in qualche misura affascinato da lui (e viene ricambiato con una certa stima sincera). La corte di ministri, banchieri e prelati che si affollano intorno a don Gaetano appare, nel confronto, inconsistente, meschina e viziosa. Inetti ed incapaci si presentano infine i tutori della legge, tanto da apparire a tratti una (dolorosa) caricatura.


Con Todo modo (il titolo del romanzo ripete la formula di una preghiera di Sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dell’ordine dei gesuiti), lo scrittore utilizza la forma a lui congeniale del “giallo” per offrire un quadro nitidissimo dell’Italia del tempo, della corruzione dilagante e delle collusioni tra i poteri forti.

A più di un decennio da Il giorno della civetta lo scrittore appare incupito. La nota di speranza con cui si chiudeva l’altro romanzo non si ritrova in questo, dove invece sembra che non esistano uomini davvero capaci, e prima di tutto desiderosi, di contribuire in maniera attiva, onesta, responsabile e consapevole al progresso civile.

Non è evidentemente un caso che il colpevole dei delitti non venga scoperto. Rimane perfino il dubbio che i colpevoli possano essere più di uno.

Trentacinque anni dopo è inevitabile riconoscere, nella realtà italiana contemporanea, l’ulteriore degenerazione del sistema descritto da Sciascia.

Abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, sempre più numerosi e di ogni colore politico, uomini pubblici corrotti e viziosi, per i quali la cosa pubblica è affare privato e le vicende private squallide o addirittura immorali. Il fenomeno è poi oggi ulteriormente amplificato dai mezzi di comunicazione più sofisticati, i quali svolgono un’importante funzione di informazione e di dibattito, ma più spesso pescano nel torbido per conto di una parte a danno di un’altra.

Indubbiamente il giudizio morale varia a seconda delle epoche storiche e dei luoghi. Nell’antica Grecia, ad esempio, il percorso di crescita di un giovane prevedeva anche l’unione sessuale con una persona matura: si trattava di un rito di iniziazione all’età adulta che noi oggi non esiteremmo a definire, condannandolo come uno dei delitti più luridi, pedofilia.

D’altra parte, chiunque abbia studiato un po’ di storia sa che la politica è stata spesso corrotta e che il patto di interesse tra i potentati politici ed economici è stato spesso saldissimo. Altrettanto bene sa che le più diverse Chiese hanno spesso stabilito alleanze strategiche col potere politico ed economico e offerto ottimi alibi anche alle azioni più efferate (basta pensare all’interpretazione spregiudicata degli oracoli antichi utile a scatenare faide familiari o veri e propri conflitti, per arrivare al fondamentalismo islamico passando per le Crociate cristiane in Terra Santa).

Gli intelletti più fini e sensibili hanno denunciato in ogni epoca gli abusi egoistici e violenti del potere. È inevitabile domandarsi, quindi, se davvero la “questione morale” debba rimanere estranea alla realtà della politica.

Oggi si versano fiumi di inchiostro intorno agli svaghi di Berlusconi o di Marrazzo. Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, dai tempi in cui durante i banchetti degli antichi signori le mogli erano escluse dal convito mentre erano ammessi in gran numero efebi e cortigiane.

Quello che conta però davvero è la questione che sta al fondo.

Io non discuto i gusti sessuali, che sono personali e legittimi finché non si commette abuso; discuto però del disprezzo dell’istituto della famiglia. In un Paese che si definisce moderno e civile, se si decide di rimanere sposati bisogna anche rispettare il vincolo della fedeltà. Può capitare di commettere un errore; perseverare però, così si dice, è diabolico.

Chi non ha rispetto della famiglia, oltre a non avere rispetto della propria dignità, non può essere un buon amministratore della cosa pubblica. La società è – mi sia concesso un paragone un po’ enfatico – come una grande famiglia; e l’uomo politico, come il genitore, dovrebbe giocare un ruolo particolarmente vigile e coscienzioso nel guidare la comunità. Il che, ripeto, non significa non commettere errori. Significa però sforzarsi seriamente di anteporre l’interesse collettivo a quello individuale, l’altruismo e la solidarietà all’egoismo. Significa anche sforzarsi di rispettare le norme che la comunità si è data. Significa certamente assumersi fino in fondo le responsabilità delle proprie scelte e del proprio operato. Chi non si impegna in questa direzione in seno alla famiglia, non credo affatto che sia capace di farlo in veste di ministro o governatore.


Lo scrittore rinascimentale Niccolò Machiavelli, nel suo celebre opuscolo De principatibus (più noto come Il Principe) composto nel 1513, partendo dal presupposto dell’innata inclinazione dell’uomo al male piuttosto che al bene, spiegava che un buon principe può anche compiere azioni comunemente definite immorali (l’inganno, l’omicidio…), purché esse abbiano come fine il benessere dello Stato.

Chi sintetizza il suo pensiero con la nota (e abusata) formula “il fine giustifica i mezzi”, esprimendo spesso anche un giudizio negativo sulle idee dello scrittore, compie senz’altro una banalizzazione, spesso anche in cattiva fede.

La politica, insegnava il Machiavelli cinquecento anni fa, è indipendente dalla morale, ma non per questo deve diventare uno strumento di egoistica affermazione personale: l’uomo politico deve restare al servizio della comunità.

Non so se sia realistico attendersi una “moralizzazione” della politica secondo (mutatis mutandis, s’intende) il modello proposto dal Machiavelli: lo stesso scrittore rinascimentale alternava un approccio più razionale e pessimistico ad uno più passionale e ottimistico. Di certo la mia passione non accetta di rassegnarsi al quadro degradato dipinto da Sciascia.
«Ma signori» disse don Gaetano al ministro e al presidente «spero non mi darete il dolore di dirmi che lo Stato c'è ancora... Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più...».
Saluti
Guest Post di CuoreMagico